Come il Protocollo Italia-Albania e la classificazione dell’Egitto come “Paese sicuro” minaccia i diritti umani

In seguito all’allargamento della lista dei “Paesi di origine sicura” (Decreto del MAECI del 7 maggio 2024, No.60 ad Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Camerun, Capo Verde, Colombia, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco,  Montenegro, Nigeria, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia, il 14 ottobre 2024 è stata organizzata la prima deportazione di persone migranti verso l’Albania, dove sarebbero dovute essere detenute presso i nuovi Centri per i Rimpatri istituiti con il Protocollo Italia-Albania in Materia Migratoria dell’8 marzo 2024. 

In seguito, venerdì 18 ottobre, il Tribunale ordinario di Roma si è pronunciato contro il provvedimento, sentenziando che le persone deportate in Albania non possano essere sottoposte al procedimento abbreviato delle domande di protezione internazionale previsto per coloro che vengono da “Paesi sicuri”, e di conseguenza nemmeno detenute nei centri istituiti con il Protocollo Italia-Albania, poiché non sussistono i presupposti per considerare i Paesi di origine dei richiedenti- Bangladesh ed Egitto- come “sicuri”

La decisione del Tribunale di Roma smentisce la narrazione con cui l’esecutivo di Meloni sta cercando di normalizzare le gravi violazioni dei diritti delle persone migranti alla base del Protocollo Italia-Albania, presentandolo come un modello di successo nella gestione dei fenomeni migratori. Dall’emissione del Decreto del 7 maggio è già successo che le autorità giudiziarie competenti si pronunciassero contro l’applicazione del decreto nei casi di richiedenti asilo provenienti da Tunisia ed Egitto, citando come motivazione l’esistenza di fondati rischi di “persecuzione, violenza, e discriminazione” ad opera di attori statali nei Paesi di origine. Questi precedenti rappresentano una controtendenza positiva rispetto all’approccio del governo italiano al diritto di asilo, ma l’esistenza di accordi con Paesi terzi quali Albania, Libia, e Tunisia per la gestione dei flussi migratori pone rischi concreti per i diritti umani delle persone migranti.

Delle 16 persone deportate lunedì a bordo della nave “Libra” della Marina Militare italiana sappiamo che erano state intercettate dalla Guardia costiera italiana in acque internazionali, che 6 di loro sono egiziani e 10 bengalesi, e che sono uomini, descritti da fonti governative come “non vulnerabili”. Già questo primo quadro si caratterizza per profonde irregolarità nell’applicazione del diritto, che le organizzazioni umanitarie denunciano come lesive dei diritti delle persone deportate, persone che l’Italia ha trasferito presso un Paese extra UE nonostante i propri obblighi in materia di soccorso in mare e tutela del diritto delle persone migranti a cercare asilo sul suo territorio.

Anche lo svolgimento delle procedure di screening solleva diverse preoccupazioni: in primo luogo, per quanto riguarda la rapidità con cui sarebbero state condotte (in alto mare, senza una divulgazione dei criteri o degli standard adottati nella valutazione, e dunque in maniera non trasparente e probabilmente superficiale, a giudicare dal fatto che in seguito quattro delle persone imbarcate sulla Libra sono state condotte presso una diversa struttura ricettiva in Italia dopo che due sono risultate minorenni, e altre due affette da gravi condizioni di salute); in secondo luogo, rispetto alla narrazione prodotta dal Ministero dell’Interno, che proponendo l’immagine di “uomini non vulnerabili e provenienti da Paesi sicuri” mira ad eliminare la possibilità che l’opinione pubblica possa empatizzare con le persone in questione.

Questa narrazione dei migranti rinchiusi nei centri per i rimpatri, una narrazione che a ben vedersi si nutre di stereotipi razzisti sulle maschilità razzializzate come brutali, pericolose, e dunque disumane e immeritevoli di empatia, serve a uno scopo preciso: quello di rendere socialmente accettabile la privazione dei diritti delle persone migranti. 

Ma cosa prevede concretamente l’iter abbreviato di valutazione delle domande di protezione internazionale delle persone provenienti da Paesi classificati come “sicuri”? Cosa sarebbe accaduto alle 12 persone deportate in Albania, qualora il Tribunale di Roma non avesse dichiarato inapplicabile il Decreto del 7 maggio, riconoscendo come non sicuri Bangladesh ed Egitto?

Una volta trattenuti presso le strutture detentive di Shengjin (centro di identificazione e prima accoglienza) e Gjader (centro di permanenza), in Albania, i migranti deportati sulla base dell’accordo Roma-Tirana avrebbero comunque avuto la possibilità di fare richiesta di protezione internazionale in Italia. Se tuttavia i loro Paesi d’origine sono classificati come “sicuri”, il procedimento di valutazione è destinato a seguire un iter più breve, il che riduce i tempi a disposizione dei richiedenti per presentare la documentazione necessaria a dimostrare il rischio di persecuzione o gravi minacce alla propria incolumità nel Paese di origine.

Nel caso dei richiedenti di nazionalità egiziana questo accorciamento dei tempi è particolarmente problematico: le autorità diplomatiche egiziane infatti si rendono spesso negligenti nel rilascio dei documenti ai propri cittadini e cittadine che presentino domanda di protezione internazionale, come forma di punizione, e ciò avviene soprattutto nel caso di difensore/i dei diritti umani e oppositrici e oppositori politici.

Inoltre, per coloro la cui richiesta di protezione internazionale non dovesse venire accolta non sussiste la possibilità di permanenza in Italia durante l’eventuale ricorso, un altro aspetto che aggrava la condizione di vulnerabilità di coloro i cui Paesi sono classificati come “sicuri”.

Come organizzazione fondata da attivisti e attiviste egiziane in esilio, la decisione del governo italiano di classificare l’Egitto come “Paese di origine sicuro”, così come la proliferazione di accordi per il controllo dei flussi migratori e la sicurezza cui abbiamo assistito negli ultimi anni, ci preoccupa non poco.

L’Egitto di el Sisi non può considerarsi un Paese sicuro per coloro che esprimono pacificamente il proprio dissenso, che svolgono attività sindacale, o di ricerca, o di informazione indipendente; la repressione colpisce indiscriminatamente partiti politici di opposizione, civili in aree di conflitto come il Sinai, studenti e studentesse egiziane all’estero, attivisti/e, persone LGBTIAQ+. Il trattamento riservato alle persone migranti- che comprende detenzioni arbitrarie, procedimenti giudiziari iniqui, deportazioni verso zone non sicure, e altri abusi- è stato spesso denunciato come lesivo dei diritti e dell’integrità delle persone migranti.

Sappiamo che uno dei cittadini egiziani trasferiti dalla Guardia costiera italiana nei centri di detenzione amministrativa in Albania è un giovane fuggito dall’Egitto attraverso la Libia per non dover prestare il servizio militare obbligatorio. In caso di rimpatrio o riammissione, rischierebbe di essere detenuto in condizioni disumane, e verosimilmente sottoposto a trattamenti crudeli, inumani, e degradanti, che tuttora restano prassi nelle carceri egiziane.

Non sappiamo quali valutazioni dei profili di rischio abbiano portato alla decisione del governo italiano di considerare l’Egitto come “Paese di origine sicuro”, ma sappiamo che coloro che vi vengono riammessi dall’Italia sono talvolta soggetti a sparizione forzata, o criminalizzati con accuse arbitrarie da un apparato giudiziario asservito al volere dell’esecutivo

Nel settembre 2022, un barcone che trasportava persone migranti dall’Egitto è stato intercettato dalle autorità maltesi e rispedito indietro. Coloro che si trovavano sull’imbarcazione sono stati arrestati e detenuti in un carcere militare nei pressi di Port Said, e successivamente sottoposti a sparizione forzata. Non abbiamo informazioni su cosa sia successo loro.

Questi provvedimenti non riguardano soltanto coloro che migrano in maniera irregolare: EgyptWide ha documentato almeno dieci arresti di cittadini egiziani regolarmente residenti in Paesi stranieri, tra i quali Italia, Bahrein, e Malesia, che tra gennaio 2019 e agosto 2023, di ritorno in Egitto (spontaneamente, nei casi di residenti con visti di studio o di lavoro, o in maniera coatta nel caso di un richiedente asilo residente in Turchia), sono stati arrestati con accuse pretestuose e detenuti arbitrariamente.

Nel corso di quest’anno, l’Italia non è stata il solo Paese UE ad aver scelto di garantire ulteriore legittimazione internazionale al governo di el Sisi classificando l’Egitto come “Paese di origine sicuro”: anche l’Irlanda, a luglio 2024, ha adottato un provvedimento analogo, nonostante le denunce degli organismi internazionali e della società civile sulla grave situazione dei diritti umani in Egitto.

Per coloro che migrano dall’Egitto e da altri Paesi considerati “sicuri” si profilano gravi rischi in materia di diritti umani, dalla detenzione arbitraria in strutture inadeguate, alla compromissione del diritto di protezione internazionale a causa dell’accorciamento delle tempistiche procedurali, fino alle riammissioni e ai rimpatri coatti (una prassi che l’Italia porta avanti, ai limiti della legalità, già da alcuni anni). 

Auspichiamo che l’Italia si adoperi per rispettare i propri obblighi in materia di accoglienza e tutela dei diritti delle persone migranti, anche rivedendo la classificazione dei Paesi d’origine “sicuri” alla luce della loro reale situazione interna, come peraltro previsto dal diritto umanitario e dal diritto europeo.

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